dal sito dell'assemblea di scienze politiche di Milano
LETTERA DI UNO STUDENTE DAL CARCERE DI SAN VITTORE
LETTERA DI UNO STUDENTE DAL CARCERE DI SAN VITTORE
Qui di seguito pubblichiamo la 
lettera di uno studente della facoltà di Scienze Politiche, militante 
nell’assemblea di facoltà, arrestato lo scorso 4 settembre con l’accusa 
di aver preso parte agli incidenti che hanno provocato il ferimento di 
un altro studente ad una festa in Statale:
AGLI STUDENTI E ALLE STUDENTESSE, AI LAVORATORI E ALLE LAVORATRICI DELL’UNIVERSITA’ STATALE DI MILANO.
Settant’anni
 sono passati da quel 8 settembre. Quel giorno nel nostro Paese si 
ricominciava a sperare alla fine della guerra e del fascismo.
Triste
 anniversario per scrivere queste parole, anche perché dopo quella data 
le violenze non finirono. Iniziò la lotta partigiana per cacciar via i 
nazisti e i fascisti nostrani (i repubblichini) che occupavano le nostre
 città e le nostre campagne. Iniziarono gli scioperi nelle fabbriche, si
 saliva in montagna per organizzarsi, ci si ribellava dentro i confini e
 le galere. La repressione si fece sempre più dura, più brutale. Le 
fucilazioni, i massacri. Ma i partigiani seppero resistere e seppero 
sconfiggere il nazifascismo.
Sono
 state le storie dei partigiani che mi hanno insegnato a lottare. E le 
parole di mio nonno, che partigiano non fu ma che mi insegnò che per i 
propri diritti bisogna lottare, sempre a testa alta, senza mai guardarsi
 indietro.
Concetti
 che feci miei sin da quando andavo a scuola. Non fu un momento 
specifico, ma un insieme di eventi, ciò che mi fece maturare l’idea che 
la mia condizione, come quella dei miei coetanei, stava peggiorando. Le 
riforme dell’istruzione (Zecchino-Berlinguer, Moratti e Gelmini) e le 
riforme del lavoro (Pacchetto Treu e Legge 30) sono state solo alcune 
delle mosse che hanno consegnato a noi giovani questa situazione 
disastrosa. E poi la crisi economica che colpisce tutti, studenti e 
lavoratori, disoccupati e pensionati, genitori e figli, carcerati e 
immigrati.
In
 un contesto come questo, l’unica cosa che i governi di mezzo mondo 
hanno saputo fare è stata stringere la cinghia. Le chiamano manovre 
“lacrime e sangue”. Ma lacrime e sangue di chi? Sempre dei soliti, di 
chi lavora, di chi va a scuola, di chi è povero. I ricchi no, loro non 
pagano la crisi, loro devono guadagnare, governare e arricchirsi grazie 
alla crisi. Allora il fallimento di una fabbrica, mentre diventa un 
dramma per centinaia (se non migliaia) di famiglie che rimangono senza 
lavoro, diventa una buona occasione per lauti guadagni per qualche nuovo
 imprenditore. E lo stesso vale per la svendita dell’istruzione 
pubblica. Adesso non si studia più perché si vuole studiare, per farsi 
una cultura, per provare a capire come funziona il mondo o come 
osservare la natura. No, adesso no, adesso si deve studiare unicamente 
per lavorare e per questo motivo si studia solo quello che serve alle 
esigenze del mercato del lavoro. Nel frattempo si aprono le porte ai 
privati: i soldi, le spese rimangono pubbliche, ma i profitti, il 
cosiddetto “capitale umano” va ai privati, alle imprese, a 
CONFiNDUSTRIA, a ingrossare i guadagni dei ricchi.
E
 così, mentre smantellano l’università pubblica, si restringono anche le
 opportunità per tutti i nuovi iscritti e per chi si vuole iscrivere. 
Nell’era della crisi, come ogni buona azienda (già, perché adesso chi 
gestisce l’università è un consiglio d’amministrazione, come nelle 
migliori imprese) l’università taglia le voci di spesa che ritiene non 
profittevoli. Allora si appaltano a ditte esterne servizi essenziali 
come la mensa o le pulizie – con condizioni economiche e lavorative 
sempre peggiori per i lavoratori- oppure si tagliano direttamente 
studentati e borse di studio. Addirittura interviene una riforma, quella
 dell’ex ministro Profumo, a modificare i criteri su come vengono 
assegnate le borse di studio: non più su base economica –cioè a seconda 
del reddito e della possibilità di permettersi o meno l’università- ,ma 
solo in base al merito. Meritocrazia, finto valore di questa società, 
che si ricollega direttamente all’essere produttivi sul posto di lavoro.
 Perché si, nell’era della crisi, per riprendere a fare guadagni, 
l’unica cosa che fanno i padroni è spremere di più i propri lavoratori, 
spingerli ad essere più “produttivi”. Quindi si, vai bene a scuola, fai 
il bravo e vedrai che lavorerai meglio.
E’
 così anche per la mia storia. Chi comanda, chi governa, chi guida e 
amministra la giustizia in questo paese, ha deciso che io e Lollo siamo 
colpevoli. E le manette scattano automaticamente. Strano sistema questo,
 che prima ti sbatte in galera e poi si domanda se sei stato tu o meno. E
 ce ne sono a migliaia di storie come questa dietro queste mura.
Ho
 dichiarato ciò che avevo da dire al GIP l’altra mattina. Ho spiegato 
che io non c’entro niente, che questo ragazzo, Federico, non lo conosco e
 che non avevo idea che quella sera fosse andato via in quella maniera.
Se
 avessi visto quella scritta sul manifesto sarei andato a parlare con 
Federico e  gli avrei spiegato che il suo era stato un gesto poco 
rispettoso nei confronti di chi si è fatto giorni, mesi, anni di carcere
 per le proprie idee. Gli avrei detto che avrebbe potuto scrivere da 
un’altra parte, ma mai mi sarei immaginato di prenderlo a botte. Che 
ragioni avrei avuto?
Ogni
 giorno vado in università e non ci vado solo per studiare. Peggiorano 
le condizioni di noi studenti e penso perciò che sia giusto opporsi a 
questo, lottare per ciò che ci spetta, per soddisfare i nostri bisogni e
 far valere i nostri diritti. Io, con gli altri studenti come me, ci 
parlo, mica alzo le mani su di loro.
Vedendo
 le firme dei provvedimenti, di chi mi è venuto a prendere a casa (la 
DIGOS!), dei signori P.M. che hanno deciso di arrestarmi (e sapendo che 
fanno parte del pool dell’antiterrorismo) mi sorge allora spontanea una 
domanda: cosa si sta processando in questo caso? Ciò che è successo 
quella sera o la nostra attività politica, le nostre idee? Di cosa hanno
 paura questi magistrati, che noi studenti e lavoratori veramente ci 
mobilitiamo per riprenderci ciò che è nostro, ciò che le riforme degli 
ultimi vent’anni ci hanno levato?
Ecco
 spiegato il nesso con l’accusa contro la Ex-Cuem, contro i collettivi, 
contro i centri sociali. Contro chi ogni giorno, a scuola, in 
università, sul posto di lavoro o nei propri quartieri, cerca di lottare
 per migliorare le condizioni di tutti e tutte.
Questo
 è un attacco contro chi si mobilita e si autorganizza, questo è un 
attacco repressivo contro chi mette in discussione questo sistema di 
cose. Questo, a me sembra fascismo. E i partigiani mi hanno insegnato 
che i fascisti si cacciano via. E Federico non mi è sembrato un 
fascista.
Simone, studente di Scienze Politiche

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