mercoledì 10 maggio 2017

per Peppino Impastato e RADIO AUT

certo, questo blog, e nemmeno liberanotizienews son paragonabili a RADIO AUT, ma come mi disse un amico "Oh Gibo, ma chi l'ha detto? tu sei qui e ora e io ho letto te ieri..."
Questo breve post, per ricordare Peppino, un GIGANTE, e comunicare che il mio Presidente, Guido Pollice, Presidente di Verdi Ambiente e Società ONLUS, ha guidato la delegazione di VAS in Sicilia
per chi non sapesse o volesse approfondire, vi mando due link che sono stati prontamente divulgati da un altro EcoAttivista
(si è vero, siamo in pochi, non certo la maggioranza, se no, va da sè, sarebbe "Già un mondo migliore", e per questo, allora, che i settimanali locali si

inventano "incidenti e multe, insultano gli ossonesi additandoli a scellerati scansafatiche che non fan 5 metri a piedi con le borse dei panni")
Nella bontà e nel ricordo che volge al futuro, andiamo avanti, e colgo occasione per ringraziare chi non si piega al fango di certi tizi, o a chi, per due lire, o ricatti e menzogne, non se la sente di seguire la luce della verità e della giustizia.

a seguire due articoli, uno dal sito nazionale di VERDI AMBEITNE E SOCIETà e
 l'altro da RADIO AUT

http://www.radioaut.org/iniziative/9-maggio-ricordo-peppino-un-rivoluzionario-comunista/


Il 9 maggio 1978 veniva ucciso, dalla mafia, Peppino Impastato.
Il Potere aveva relegato Peppino in un cono d’ombra;  l’ha indicato, dal 1978 fino al 2001, come un “terrorista”, favorito dal clima creato dall’uccisione di Aldo Moro.
Vi è, allora, anche un aspetto istituzionale, anzi di morfologia del potere da ricordare: per insabbiare la verità sull’uccisione di Peppino, che i suoi compagni subito gridarono e coraggiosamente pretesero, è stato organizzato da settori politici, dei carabinieri, della magistratura, un infame, colossale “depistaggio”.
Ci sono voluti 23 anni, perché sentenze e relazioni parlamentari accertassero che l’uccisione di Peppino configurava un delitto politico-mafioso di grande rilievo.
Oggi quella dell’antimafia è divenuta un’etichetta utile a tutti: istituzioni, partiti, aziende ed associazioni fanno a gara per accaparrarsi il bollino della legalità. Ma cosa è oggi la legalità? Quale processo ha permesso ad un concetto quale quello di “legalità”di divenire la bandiera di un presunto movimento di opposizione quale quello genericamente definito “movimento antimafia”? Se il termine “legalità” è palesemente connotato dall’attuale sistema di potere che identifica lo Stato-legislatore come unico beneficiario della possibilità di definizione di ciò che è legale e ciò che è non, sarà ancora lo Stato l’unico attore in grado di sconfiggere l’apparato mafioso e imporre le sue leggi?
Nel dizionario della lingua italiana per legalità si intende:
  • carattere di ciò che è legale, conforme alle disposizioni di legge;
  • condizione fissata dalla legge: restare nell’ambito della legalità.
La legalità è derivata e declinata nelle sue varie forme dallo Stato, perché la Legge è definita dallo Stato; ci troviamo così di fronte ad un cane che si morde la coda: la legge è lo strumento per antonomasia che il potere si da per garantirsi la riproduzione sociale, ma nonostante questa peculiarità immutabile, l’unica risposta che il “movimento antimafia” è capace di darsi come soluzione di cambiamento radicale della società meridionale e nazionale è la riproposizione estenuante del binomio magistratura-legalità, cioè del potere stesso.
Le misure puramente repressive non possono in alcun modo cancellare il fenomeno mafioso la cui necessità sociale, economica e politica garantisce il continuo riformarsi delle gerarchie criminali.
Le centinaia di arresti continuamente spacciati dalla propaganda ufficiale come segno di una supposta vittoria sono mera rappresentazione di un teatrino opprimente per la nostra terra.
Credo sia giusto sottolineare un aspetto centrale: a guardare la composizione sociale del nostro territorio, la sua storia e le sue lotte, riconosciamo anche noi che molto spesso, dietro la richiesta di legalità si nasconda un’immediata (ma superficiale) forma resistenziale (e di lotta) ad un potere che in Italia, più che altrove, ha mostrato grande arbitrarietà rispetto ai proprio ordinamenti giuridici; una voglia di cambiamento che però, rispondendo proprio alle sollecitazioni del potere stesso che si vuol combattere, adagiandosi sui suoi strumenti oppositivi e sul suo linguaggio, finisce inevitabilmente per essere più funzionale che conflittuale ed antagonista al sistema stesso.
Per cui, chi grida alla legalità, sostiene un concetto che è al contempo legge e controllo, è Stato e appiattimento sociale, è filosofia della conservazione e antirivoluzione per definizione.
In questo senso va anche visto il ruolo ricoperto dalla venerata e osannata Magistratura; affidare ai tempi (e ai fini) della magistratura i tempi della lotta è l’errore più grande in cui i movimenti di opposizione possano cadere; il potere giudiziario in quanto tale è potere politico a tutti gli effetti ( e in questo purtroppo Berlusconi ha ragione) con precisa funzione sociale: “tale questione non ha nulla a che fare (come talvolta si vuol credere) con la supposta esistenza di buoni o cattivi giudici, di una magistratura corrotta che si oppone ad una di onesti funzionari al servizio della giustizia.
La questione è il ruolo che l’apparato giudiziario e repressivo dello stato riveste nell’economia generale dell’abnorme macchina governamentale che disciplina ed organizza le nostre vite. Questo ruolo, recitato con estrema disciplina, è il ruolo del conservatore dello status quo, del mantenimento dell’ordine e della disciplina, è il ruolo di chi giudica e punisce chiunque da quell’ordine si allontani, il ruolo che magistratura e polizia hanno è, in estrema e brutale sintesi, quello di permettere, al potere attualmente dominante, di dispiegarsi in tutta la sua arrogante violenza e di generare tutto l’orrore di cui è capace”.
Sostenere la magistratura “ad ogni costo” significa in ultima istanza mettere il ruolo della legge in primo piano rispetto alla legittimità delle lotte sociali e delle forme di antagonismo che, spontaneamente o meno, si danno nei territori.
E ciò significa purtroppo difendere lo staus quo dal cambiamento reale e materiale della nostra terra. Processo dirimente è quindi l’immediato abbandono di una visione dualistica e di contrapposizione tra stato e mafia.
Lo dimostrano gli eccidi di Giardinelli e Lercara commissionati direttamente da Crispi; lo dimostrano gli omicidi di quadri proletari, sindacalisti e capi contadini nel primo-dopoguerra; lo dimostra ancora l’eccidio miserabile di Portella della Ginestra, ordito dai più alti vertici del capitalismo globale e nazionale; lo dimostra la morte di Peppino Impastato, impegnato contro le lobbies affaristiche costituitesi dietro la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi a cui erano legati i vertici della Democrazia Cristiana meridionale e non solo; e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.
Affidare allo Stato Italiano, lo “Stato delle stragi” e della repressione violenta e antidemocratica di tutti i movimenti rivoluzionari che la storia ha saputo esprimere e lasciarci in eredità, vuol dire consegnare il ricordo di Peppino ai suoi infami assassini.
Peppino parla quindi a noi, oggi, ancora di più, per il suo rigore scientifico, la sua tensione, la sua passione. Anche se tentano di trasformarlo in una icona imbalsamata, in un “santino” (come stanno tentando, del resto, con Che Guevara) va ricordato che Peppino fu un comunista. Fu un organizzatore sociale e politico; organizzò il conflitto bracciantile; occupò terre. Fu un innovatore culturale, anche sul piano della comunicazione: “Radio Aut” fu esempio straordinario della capacità comunicativa di attaccare il comando mafioso anche con lo sberleffo, con la satira aspra e documentata che parte dall’inchiesta sul territorio.
Ricordiamo Peppino, oggi, dopo tanti anni, con il sentimento vivo e l’affetto di chi si sente, anche emotivamente, parte di uno splendido impegno collettivo. Tanto più perché controcorrente.


Sui social, molti stanno ricordando Peppino Impastato.
Nel quartiere Niguarda a Milano, noi come VAS Onlus Lombardia abbiamo organizzato nello scorso febbraio un bellisssimo incontro assieme all’Anpi, con la presenza di Giovanni, fratello di Peppino.
Oggi, in occasione dell’anniversario della morte del compagno di Democrazia Proletaria, riprendiamo un lungo servizio/ricordo che il nostro caro amico Tiziano Marelli pubblicò sull’Europeo  qualche anno fa.
Perché noi non dimentichiamo: MAI.
“NON TOCCATE TANO SEDUTO” di Tiziano Marelli
Verso le ore 0,30-1 del 9.5.1978, persona allo stato ignota, presumibilmente identificantesi in tale Impastato Giuseppe, si recava a bordo della propria autovettura Fiat 850 all’altezza del Km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo, per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”.
Al di là del tono burocratico-inquisitorio estremamente fastidioso e di difficile lettura, quelle appena riportate sembrano le certezze di tutta un’inchiesta. La sicumera con cui sono vergate queste poche righe, invece, è frutto delle ‘conclusioni’ a cui è velocissimamente giunto – con l’ausilio delle indagini dei carabinieri giunti sul posto – il procuratore aggiunto Gaetano Martorana, solo poche ore dopo l’episodio in questione, la mattina di martedì 9 maggio 1978. E rappresentano per intero il testo del fonogramma inviato sul caso al procuratore generale di Palermo, accompagnate dal titolo: “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda”. Rappresentano anche l’immediato tentativo di uccidere di nuovo, per la seconda volta nel giro di poche ore, “tale Impastato Giuseppe”.
Un “tale” che invece tutti chiamavano Peppino: gli amici e i compagni di fede politica che lo conoscevano e tutti quelli che impareranno a conoscerlo da quel giorno, vittima prima della mafia poi di uno Stato interessato a tentare di chiudere subito una antipatica partita giudiziaria, iniziata appena poco prima del ritrovamento di un altro cadavere eccellente, quello di Aldo Moro all’interno di una Renault rossa: succede il pomeriggio dello stesso giorno, in via Caetani a Roma. Accadimento, quest’ultimo, di impatto sconvolgente per la storia della nostra Repubblica, e capace nell’immediato di relegare in secondo piano, per tanto e troppo tempo, un omicidio di mafia camuffato da attentato maldestro, in cui la vittima ‘deve essere’ per forza anche l’esecutore. Niente di più lontano, invece, dal personaggio protagonista di questa storia.
Un contesto tutto mafioso, a partire dalla famiglia
Personaggio e interpreti di una trama che, del resto, ha ben saputo comunicare il regista Marco Tullio Giordana, nel 2000, grazie ad uno splendido film, protagonista un esordiente Luigi Lo Cascio; per chi conosceva Peppino, la scelta dell’attore risulterà azzeccata anche per l’impressionante somiglianza fisica fra i due. Il titolo della pellicola è quello della distanza che intercorre fra la casa della famiglia Impastato e quella del boss Gaetano (Tano) Badalamenti: soltanto “cento passi”. Una distanza minima per il padre di Peppino, Luigi; inconcepibile invece per uno come il figlio che avrebbe voluto frapporre con quel mondo di omertà rappresentato dal boss tutta la distanza possibile. La famiglia – ci sono anche la mamma Felicia (che diventerà un’icona della lotta per la verità sulla morte del figlio) e il fratello Giovanni – respira mafia a pieni polmoni, da generazioni. Mafioso di piccolo cabotaggio il padre (piccolo commerciante), mafioso di grosso calibro invece lo zio Cesare Manzella (anche al confino per questo durante il fascismo, saltato in aria nel 1963 per lo scoppio di un’autobomba), mafioso praticamente tutto il contesto d’attorno, centrato sulla figura di Badalamenti, criminale che assurgerà al ruolo di boss della zona (lo dichiarerà anni dopo Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone) proprio in quel periodo.
Destinato, quindi, quasi ‘naturalmente’ ad essere uomo d’onore anche lui, Peppino invece si ribellerà all’eventualità quasi subito, appena la sua età sarà quella della ragione. E lo farà nella maniera che secondo quei codici è forse considerata la peggiore: diventando comunista e militando nei gruppi della sinistra extraparlamentare. Naturalmente ribelle negli atteggiamenti e nel look, Peppino si rivela ben presto un grande animatore, in una zona dove solo questo è sufficiente a suscitare sospetti. Fonda un circolo – “Musica e Cultura”, dove si proiettano film, si tengono concerti e si organizzano dibattiti – e, con l’avvento delle radio libere (siamo all’inizio del ’76, ha appena 23 anni) si mette a combattere via etere contro tutto il sistema che regola la vita di quella parte di Sicilia, a Cinisi, paesone stretto fra Palermo e l’aeroporto di Punta Raisi. Uno dei cavalli di battaglia della ‘sua’ Radio Aut sarà proprio quello contro la costruzione della terza pista dell’aerostazione, eventualità appetita naturalmente dalle cosche, per evidenti ragioni di appalti e di possibile ulteriore smistamento dei carichi di stupefacenti spediti dai ‘fratelli’ delle famiglie americane. Le sue trasmissioni radiofoniche, caratterizzate da un palinsesto tutto votato alla controinformazione, non cessano praticamente mai di picchiare duro sui personaggi malavitosi del luogo, arrivando addirittura ad osare l’inosabile: la presa per i fondelli tout court – il “contenitore quotidiano” (così diremmo oggi) da lui gestito si chiama “Onda Pazza”- di Badalamenti, che nelle sue vere e proprie jam session al microfono Peppino chiama “Tano Seduto”, senza preoccuparsi di celare minimamente l’identità del protagonista, dei suoi attacchi e di tutti i suoi più stretti accoliti. In breve tempo il padre lo caccia di casa e il paese gli fa terra bruciata intorno; vicini gli restano la madre, il fratello e gli amici e compagni della nuova sinistra, che sono anche quelli che gravitano intorno alla radio.
Poco tempo prima del suo assassinio muore anche il padre, appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti dove avrebbe tentato di salvargli la vita incontrando affiliati della mafia in grado di intercedere per lui: aveva capito che il destino di Peppino era segnato. Ma a Luigi Impastato capita qualcosa di strano: viene investito, di notte, da un’auto pirata che si dilegua. Nessuno ha visto nulla. Intanto, al culmine del suo impegno sociale, Peppino si è presentato candidato alle elezioni comunali di Cinisi nelle file di Democrazia Proletaria; viene anche eletto, ma “alla memoria”: la consultazione è fissata per il 14 maggio, la domenica successiva alla scoperta del suo corpo dilaniato. Prende 260 preferenze “post-mortem” e il suo partito il 6%: un exploit per la zona, alla pari di quello registrato dalla Democrazia Cristiana di Cinisi, che raggiunge il suo massimo storico e sfiora la maggioranza assoluta con il 49% dei consensi.
Subito i depistaggi
La sera di quel martedì 9 maggio ‘78, all’uscita dalla radio Peppino saluta gli amici e dice loro che deve andare a Terrasini, un centro poco lontano da Cinisi. Da quel momento di lui si perdono completamente le tracce, nessuno ne sa più nulla. Le indagini non sono riuscite a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti: sono mancate, del tutto, testimonianze dirette.
Quello che si presume è che l’auto di Peppino deve essere stata bloccata fra i due paesi, e lui trascinato da più persone nel casolare poco distante dal punto in cui il corpo è stato trovato dilaniato. Qui, probabilmente, è stato ucciso per essere poi disteso sui binari e fatto, letteralmente, a pezzi dal brillio del tritolo. All’1 e 40 di quella notte, il macchinista del treno Trapani-Palermo, Gaetano Sdegno, all’altezza della località Feudo – in territorio di Cinisi – avverte un forte scossone; ferma subito la locomotiva e scende ad osservare il binario, scoprendo che è tranciato. A quel punto avverte il dirigente della stazione ferroviaria che a sua volta avvisa al telefono i carabinieri; quando questi arrivano sul posto si accorgono immediatamente che la linea è divelta per un tratto di circa mezzo metro e che nel raggio di altri trecento sono sparsi resti umani.
Immediatamente cominciano quelli che gli animatori del futuro Centro di Documentazione Peppino Impastato chiameranno, senza nessun giro di parole, depistaggi. Vediamone alcuni. I resti umani vengono immediatamente raccolti in un sacco di plastica e portati via. Le tracce di sangue cancellate. I binari subito immediatamente riparati e ripristinati. All’interno della macchina di Peppino, distante un centinaio di metri, morsetti di un cavo lungo solo venti metri attaccati alla batteria diventano ‘prova principe’ dell’ideazione ed esecuzione dell’attentato, insieme ad un biglietto (solo due righe, scritte anni prima: “Voglio abbandonare la politica e la vita”…) trovato nella perquisizione effettuata nella casa materna in cui Peppino, sempre secondo i carabinieri, manifesta “chiari propositi suicidi”.
Una pietra insanguinata trovata nel casolare vicino – fra quelle mura sono visibili anche tracce di sangue: non sono prese in considerazione – e consegnata dagli amici di Impastato agli inquirenti sparirà immediatamente, senza mai più essere ritrovata. Il metodo mafioso classico per eccellenza, in occasione di un omicidio, contempla la sparizione del corpo, ma il periodo storico-politico favorisce una messinscena quasi raffinata per Cosa Nostra: le Brigate Rosse imperversano, Peppino è comunista, il rapimento Moro è nel pieno del suo tragico svolgimento. Inscenare un attentato che costa la vita al suo esecutore è quasi perfetto (anche se le Br non hanno mai messo bombe sulle rotaie…) per far passare la tesi dell’azione terroristica e infangare la memoria di un paesano scomodo e irriverente non concedendogli nemmeno quella sorta di “onore delle armi” – l’omicidio di stampo mafioso – che solitamente viene riservato ai nemici “regolari”. In più, l’avvertimento è invece chiaro, per chi lo deve intendere.
La lunga strada per arrivare alla verità
In effetti molti intendono da subito come possono essere andate le cose ma, a differenza di quello che pensavano Tano & compari, cominciano anche a dirlo. All’inizio piano, poi sempre più forte, anche quando le indagini continuano ad andare avanti a senso unico. Negli anni, nei tanti anni a venire, saranno diversi i colpi di scena. Il primo è pochi giorni dopo l’omicidio, il 16 maggio, quando mamma Felicia e il fratello presentano un esposto contro ignoti per l’assassinio di Giuseppe; sembra un gesto scontato, ma non è così, è molto di più: la prova di una rottura pubblica con il mondo omertoso della mafia operata dalla famiglia.
Il 6 novembre di quell’anno la prima svolta: la magistratura non crede alle tesi dei carabinieri, e il sostituto procuratore trasmette gli atti all’Ufficio Istruzione di Palermo, che fa capo a Rocco Chinnici, per aprire un procedimento per omicidio premeditato. Ci vogliono sei anni di indagini (nel frattempo Chinnici è ucciso dalla mafia) perché – è l’84 – venga emessa una sentenza che cambia per qualche tempo il corso di questa brutta storia: nelle motivazioni viene riconosciuta la matrice mafiosa dell’assassinio, attribuito però ad ignoti. La firma in calce al provvedimento è quella di Antonino Caponnetto.
I primi a mettere nero su bianco il nome di Badalamenti sono gli animatori del Centro Impastato, sostenuti dalla madre: succede con la pubblicazione del dossier ‘Notissimi Ignoti’, nel 1986. A quel punto Giovanni Falcone prende l’aereo e va ad interrogare il boss, recluso nelle carceri americane e condannato a quarantacinque anni per l’affare “Pizza Connection”: lui non risponde, ma dopo altri due anni si vede comunque recapitare una comunicazione giudiziaria per l’assassinio di Peppino Impastato. Sembra la via giusta, ma la strada per far luce sull’episodio è ancora lunga, e dovrà passare attraverso un’altra archiviazione (succede nel ’92, quando il sostituto procuratore De Francisci esclude la responsabilità di Badalamenti e ipotizza quella dei corleonesi suoi avversari), decine di audizioni parlamentari dalla Commissione Antimafia e interpellanze di alcuni parlamentari di Democrazia ProletariaGuido Pollice e Giovanni Russo Spena in testa.
E’ soprattutto grazie a quest’ultimo se nel 2000 la Commissione Antimafia – Russo Spena nell’occasione ne è il relatore – approverà all’unanimità la relazione sul “caso Impastato”, in cui si riconoscono le responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini sul delitto. Passa altro tempo ed è ancora il Centro Impastato a chiedere formalmente che venga interrogato un pentito, Salvatore Palazzolo; è, finalmente, la mossa vincente: Palazzolo parla e indica in Badalamenti il mandante dell’omicidio.
L’udienza preliminare contro quello che viene indicato come uno degli esecutori, Vito Palazzolo (parente del pentito), si apre il 10 marzo 1999, mentre la posizione di Badalamenti viene stralciata. Vito Palazzolo è riconosciuto colpevole dell’omicidio e condannato, il 5 marzo 2001, a trent’anni di prigione; Tano Badalamenti, l’11 aprile del 2002, viene condannato all’ergastolo come mandante dello stesso assassinio, e nella motivazione della sentenza, fra l’altro, è scritto: “Grazie alle dichiarazioni dei collaboratori, non solo si è potuto restringere il cerchio della responsabilità alla cosca di Cinisi, ma anche è rimasto accertato che Badalamenti Gaetano, avvalendosi delle prerogative di capo di detta famiglia, decise l’omicidio e la sua esecuzione con quelle particolari modalità, essendo il maggiore interessato sia all’eliminazione del Giuseppe Impastato, che alla successiva messa in scena dell’attentato; cosicché il composito quadro indiziario, per la sua gravità, precisione ed univocità, impedisce ogni altra lettura alternativa”.
E pensare che era tutto già scritto
Solo due anni dopo, il 29 aprile 2004, ‘Tano Seduto’ morirà in un carcere di massima sicurezza Usa: formalmente non ha scontato un solo giorno di prigione per l’assassinio commesso al suo compaesano di Cinisi. Muore, anche, Felicia Bartolotta Impastato, poco tempo dopo, il 7 dicembre, a 88 anni. Ne ha passati ventiquattro anni e mezzo a combattere perché si arrivasse alla verità sulla morte del suo Peppino.
Al funerale di questa “mamma coraggio” parteciperà buona parte di Cinisi, una parte della Sicilia sana e migliaia di persone giunte da ogni parte d’Italia. Nell’occasione, sulla facciata della sua casa tutti hanno potuto leggere la lapide lì collocata nell’ormai lontano maggio ’89, e mai più rimossa: “A Giuseppe Impastato, assassinato dalla mafia il 9 maggio 1978. Il Centro Impastato ricorda il suo contributo di idee e di esperienze nella lotta contro il dominio mafioso”.
Con largo anticipo, chi conosceva il contesto in cui è stato “girato” quest’orribile film di vita vera, aveva scritto correttamente la sentenza e le esatte motivazioni dell’omicidio. Poche parole impresse e incise nel marmo da chi conosceva molto bene sia Peppino che il suo nemico, quello contro il quale lui aveva messo in gioco tutta la forza a disposizione per combatterlo. Tutta, tanto da lasciarci la vita.

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