A DIECI ANNI DALLA SCOMPARSA DI CARLO MARIA MARTINI, IL RICORDO DEL CARDINALE NELLE PAROLE DI DON VIRGINIO COLMEGNA: DAL “VAI A SESTO” A “HO BISOGNO DI MOLTA CONCRETEZZA NELLE PAROLE DI CARITAS” ALLA CREAZIONE DI UNA CASA DOVE “FARE ACCOGLIENZA E CULTURA”.
Era un venerdì l’ultimo giorno dell’agosto 2012, il giorno
della scomparsa di Carlo
Maria Martini, gesuita, teologo, biblista, dal 1980 al 2002 arcivescovo
di Milano, cardinale del dialogo interreligioso e dell’incontro tra
credenti e non credenti, aperto alle tante e diverse realtà sociali, nessuno
escluso, con grande attenzione per gli ultimi, per i più poveri, per gli “sprovveduti”
come lui amava definirli.
Sono passati 10 anni, ma quel venerdì 31
agosto 2012 per don Virginio
Colmegna, presidente della Fondazione Casa della Carità, non sarà mai una
ricorrenza. Semmai un’occasione di riflessione, in cui le tante
emozioni del passato si mescolano al presente e la memoria cerca nuove risposte
per il futuro.
IO, IL CARDINAL MARTINI E LA CASA
«In quelle ultime settimane d’agosto 2012 si sapeva che le condizioni di Martini erano molto peggiorate. La notizia della morte me la diede l’amico don Damiano Modena che lo ha accompagnato nei suoi ultimi 4 anni all’Aloisianum di Gallarate. Mi ero preparato a modo mio, cercando di vivere il distacco nel segreto del mio cuore senza mai andare a disturbare: dentro di me sapevo che si stava per chiudere una parabola di vita e che quello sarebbe stato un momento importante, decisivo per me, per molti. Martini era una persona riservata e lo è stato anche nel momento della scomparsa. Però aveva fatto breccia nel cuore e nell’anima di tanti. Lo si è visto nei giorni successivi alla sua morte quando migliaia di persone, credenti e non credenti, forestieri e milanesi di cui era stato vescovo per vent’anni, si sono messe in fila, pazienti e silenti, per rendergli omaggio nella camera ardente in Duomo: un’esplosione di popolo, gente semplice insieme a gente famosa, nei cui cuori aveva lasciato il segno».
Hai frequentato Martini per più di trent’anni, hai più
volte detto che è stato l’incontro che ha segnato la tua vita.
«Sì, è così, per me ha rappresentato la gioia di
essere prete e mi ha dato l’entusiasmo per andare avanti. Per me e per
tanti come me, quegli anni (fine anni ‘70, ndr) erano stati
faticosi, duri. Quando Martini arrivò a Milano come Arcivescovo, insieme ad
altri preti che chiedevano di star dentro al sistema sociale, gli
scrissi una lettera per esporgli la mia situazione. Mi rispose
invitandomi per tre giorni a vivere in Arcivescovado. Poi prese la sua
macchina, una 124, e con lui alla guida andammo insieme all’abbazia di
Viboldone. Io gli avevo chiesto di poter essere più vicino al mondo
operaio, di poter vivere esperienze di ospitalità e di accoglienza. Dopo
un’ora di silenzio e di preghiera, lui in una stanza e io in un’altra, mi
disse: “Vai pure a Sesto, vai in fretta, prima che gli altri si accorgano”.
E visto che volevo seguire le marginalità, mi chiese di inventare una
possibilità di accoglienza per i disabili. È nata così l’esperienza della
Parpagliona, una piccola casa della periferia sestese dove cominciammo ad
accogliere disabili e persone dimesse dagli ospedali psichiatrici. Ricordo con
emozione la sera in cui Martini, da solo, senza avvisare nessuno, venne alla
Parpagliona e si sedette vicino agli ospiti, curioso di vedere e sapere».
A proposito di ricordi, dopo tre anni di parroco a
Sesto, Martini ti volle a capo della Caritas Ambrosiana. Non era quello che
speravi…
«Volevo continuare la mia esperienza di parroco di periferia
alla Resurrezione di Sesto e glielo dissi, ma lui mi convinse dicendomi: “Fallo
proprio per questo, per superare la logica dell’assistenzialismo.
Ho bisogno che ci sia molta concretezza nelle parole di Caritas”».
Da presidente della Caritas, tra le prime cose, ti
capitò di occuparti della famosa occupazione della chiesa di San Bernardino
alle Ossa da parte di immigrati senza casa.
«Fu la prima occupazione di una chiesa. Martini mi telefonò per dirmi di “fare di tutto per convincere gli occupanti ad uscire” raccomandandomi di non chiamare la polizia. Ci volle molta pazienza perché in città la tensione era alta e da più parti si invitava allo scontro. Io sapevo di avere la fiducia del mio vescovo e feci l’impossibile per convincere gli immigrati a desistere. Quando tutto finì per il meglio, Martini ci invitò a cena a festeggiare il buon esito. Martini era così, innamorato del Vangelo, attento a ciò che succedeva, attento alle persone, lucidissimo nel capire il presente e i fenomeni sociali, capace di anticiparli. A volte alla mattina, alle otto, otto e un quarto, mi telefonava per sapere come andava questa o quella cosa».
Dopo 11 anni scrivi un’altra lettera a Martini, quasi
al termine del suo mandato pastorale, e in sintesi gli proponi, sentendoti alla
fine del percorso in Caritas, di usare una parte dell’eredità lasciata alla
Curia milanese dall’imprenditore Angelo Abriani per creare un luogo dove
accogliere e servire gli ultimi. Cosa ti ha risposto?
«Il giorno dopo mi chiamò il provicario generale
dell’arcidiocesi, monsignor Franco Agnesi, dicendomi che il cardinale
era molto interessato e di darmi al più presto da fare a cercare
un luogo dove dar vita a questa iniziativa, invitandomi a cercare una
realtà pubblica abbandonata. È così che prende corpo l’idea della Casa
della Carità in una scuola abbandonata di via Brambilla a Crescenzago,
dove già la cooperativa Farsi Prossimo aveva un presidio perché in alcuni
locali avevano trovato rifugio immigrati e senza dimora. Progetto fortemente
voluto da Martini che, grazie alla sua amicizia con
l’allora sindaco di Milano Gabriele Albertini, passò votato all’unanimità
in consiglio comunale con la concessione dell’edificio in diritto di superficie
per 99 anni. Ricordo con emozione il discorso di addio a Milano pronunciato davanti al
consiglio comunale, quando a proposito della Casa, luogo di accoglienza e
cultura, Martini disse: “Voglio lasciare un segno”».
Una Casa luogo di accoglienza e di cultura: questo il
lascito di Martini?
«Senza il cardinale, la Casa della Carità molto probabilmente non ci sarebbe. Lui è sempre stato partecipe di questo luogo, voleva essere informato anche quando non era più arcivescovo. Io partivo, facevo, ma me lo trovavo sempre accanto. Anche quando andò a vivere a Gerusalemme, so che ogni sera pregava per la Casa. Non c’è dubbio che il suo più grande lascito sia stato quello di trasmetterci il binomio “accoglienza e cultura” e la capacità di non essere assimilati a un’attività di carattere assistenziale o pietistico. Così come credo che la principale innovazione, che rispetta in pieno il mandato di Martini, sia stata la gratuità, che significa accogliere anche quelli tagliati fuori da tutti i servizi, coloro che nel Discorso alla città lui aveva chiamato “gli sprovveduti”. Ecco perché, per il futuro, chiedo che venga salvaguardato il patrimonio di pensiero e di cultura della Casa e sia assicurata la necessaria serenità economica per sostenere il peso della gratuità e dell’innovazione. Mi auguro poi che si rafforzi il legame, anche statutario, con Martini e il suo insegnamento: per questo auspico che la Fondazione Martini entri a far parte del Consiglio della Fondazione Casa della Carità».
Sono passati 20 anni, ma il tuo entusiasmo sembra
sempre lo stesso…
«Io la chiamo “follia ragionata” che mi porta a vivere,
fisicamente non lontano dalla Casa della Carità, ma all’interno dell’esperienza
della Casa, l’esperienza di SON – Speranza
Oltre Noi, dove insieme a famiglie con figli con disabilità vivremo il
“dopo di noi, durante noi”, che ritengo la conclusione della mia vita. Vedo SON
in quest’ottica di attenzione, perché vorrei che il tema della
disabilità, del Dio debole, della sofferenza, sul quale molte volte si è espresso lo stesso Martini, sia vissuto in
un’ottica di bellezza e di familiarità. Lo facciamo vicino a una parrocchia
perché possa investire anche la pastorale unitaria».
Se fosse ancora vivo, cosa pensi che ti direbbe il
cardinal Martini?
«Di fidarmi e di andare avanti a fare le cose, senza dirle
troppo».
CARLO MARIA MARTINI
CARLO MARIA MARTINI È STATO “IL CARDINALE DEL DIALOGO”.
GESUITA E BIBLISTA, È STATO ARCIVESCOVO DI MILANO DAL 1979 AL 2002. PRIMA DI
LASCIARE LA DIOCESI, HA VOLUTO LA CASA DELLA CARITÀ.
Carlo Maria Martini è stato il fondatore della Casa della Carità.
Il Cardinale ha consigliato l’imprenditore Angelo Abriani
affinché usasse la sua eredità “per i più sprovveduti”. Ha
coinvolto nella Fondazione anche il Comune di Milano, oggi nostro
garante insieme all’Arcidiocesi. E ha scelto don Virginio
Colmegna per guidare una casa che, in periferia,
promuovesse cultura a
partire dall’accoglienza.
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